Arte e migranti

Sulle spiagge e le scogliere, dove approdano o si infrangono le imbarcazioni e i gommoni dei migranti, rimangono sparpagliati indumenti e oggetti ormai inservibili. Altri li portano le onde del mare e forse appartenevano a coloro che non ce l’hanno fatta a compiere indenni la traversata. I barconi e gli oggetti abbandonati sulla sabbia hanno dentro i resti e le tracce delle vite precedenti. Queste sono le tracce dei migranti, i segni della loro drammatica (al di là di come si concluderà) avventura. Nelle coste più frequentate ogni tanto passano gli “operatori ecologici”: ramazzano e portano via tutto. Si perdono così le tracce del passaggio dei migranti per mare e tutto è destinato a esser rapidamente archiviato, soppiantato da nuovi arrivi ed emergenze. I cadaveri degli annegati, quando si ritrovano, vengono pietosamente sepolti, spesso senza nome. Tutto si cancella e si dimentica e i tormenti delle nostre coscienze, quando ci sono, si assuefanno a un ritmo monotono come quello delle onde del mare.

Gli artisti contemporanei interpretano meglio di molti giornalisti, commentatori e pensatori quello che sta succedendo a coloro che, per le ragioni più diverse, fuggono e migrano. Lo fanno meglio forse perché spesso mettono in gioco, con le istallazioni, il loro corpo: che ha sempre un altro linguaggio. Mossi da sensibilità verso queste vicende, alcuni hanno preso a utilizzare gli “scarti delle fughe” per dar vita a interessanti e significative performance della memoria.

Nell’estate del 2015, Corrado Levi si trovava sulla spiaggia di Otranto per suonare il violoncello davanti al mare. Notò una grande quantità di vestiti abbandonati dai migranti, lasciati lì perché troppo bagnati o troppo consumati dal viaggio. O forse gettati via per cercare di liberarsi dell’etichetta di fuggiaschi. Levi decise di raccoglierne alcuni e portarli a casa. Poi chiamò l’allievo, collaboratore e amico Beppe Finessi, indossò uno sopra l’altro quei vestiti, e si fece fotografare da lui. La foto Vestiti di arrivati (2015) è diventata un manifesto stradale esposto a Bologna a fine gennaio del 2016. Un manifesto in cui si vede un un uomo anziano in piedi, di tre quarti, l’espressione amaramente seria e lo sguardo che mostra la caparbietà di chi ritiene che il suo essere artista comporti il compiere quel gesto, col cappello nero da pescatore calato sulla fronte, infagottato in uno strato di varie magliette sovrapposte, gli arti superiori leggermente staccati dal corpo in un gesto quasi di sfida, ma che può sembrar anche dire “mi cascano le braccia”. Un gesto non di vaga testimonianza, ma di identificazione: un uomo nei loro panni, realmente, fisicamente.

Le migrazioni sono diventate, negli ultimi anni e in culture anche molto diverse, un tema importante dell’arte contemporanea. Lo ha compreso bene, non senza suscitare polemiche, l’artista dissidente cinese Ai Weiwei che ha aperto uno studio a Lesbos, l’isola greca meta della gran parte degli sbarchi recenti, documentando il dramma dei migranti su Instagram con centinaia di immagini. Si è poi sdraiato sul bagnasciuga imitando il piccolo bambino siriano, con la maglietta rossa e i pantaloncini blu, morto annegato e depositato dalle onde sulla spiaggia della penisola di Bodrum, in Turchia. E, assieme all’artista anglo indiano Anish Kapoor si è fatto promotore, nel luglio 2016, di una marcia degli artisti per le strade di Londra in solidarietà con i migranti. Infine, in occasione della mostra in corso a lui dedicata a Firenze, Ai Weiwei. Libero (a cura di Arturo Galansino), ha appeso alla facciata di Palazzo Strozzi 22 grandi gommoni rossi, che incorniciano elegantemente le finestre ad arco del quattrocentesco palazzo, scandalizzando molti fiorentini, preoccupati per “le ripercussioni negative sul turismo”, e anche qualche critico che ha trovato questa operazione “furba e poco artistica”.

Nel gennaio del 2016, l’artista palestinese Khaled Jarrar ha viaggiato lungo la frontiera, divisa da un’alta e impenetrabile barriera, che divide il Messico e gli Stati Uniti, da San Diego/Tijuana a El Paso/Juarez. A Ciudad Juarez ha realizzato una lunghissima scala protesa verso il cielo, fatta di pezzi divelti dal divisorio del confine. Poi, a bordo di un pullmann dell’associazione “Culturunners”, ha preso a viaggiare per gli Stati Uniti per sensibilizzare altri artisti al problema dei clandestini messicani e l’obbiettivo di arrivare a Washington, allo Smithsonian Museum, dove gli allestiranno una mostra. Il lavoro di Khaled Jarrar si concentra sulle restrizioni rispetto ai movimenti delle genti e dei popoli, a iniziare da quello palestinese, sia all’interno che all’esterno dei loro territori. Un’indagine sull’utopia della libertà e sul concetto di confini che la limitano drammaticamente: barriere spesso taglienti, pericolose, bagnata di sangue e di tensione. La sua opera più importante, il video Infiltrators (2013) documenta il viaggio di un gruppo di palestinesi, che illegalmente entrano a Gerusalemme attraverso il muro di separazione tra Israele e Cisgiordania. Clandestini, osservati e filmati in piena notte, nel disperato tentativo di raggiungere le famiglie, un’occasione di lavoro, una casa, degli amici.

Una barca di carta, costruita in scala con la grandezza di un comune vaporetto veneziano, galleggiava sulle acque del bacino dell’Arsenale all’inaugurazione della Biennale d’Arte di Venezia del 2015. Lampedusa è un’opera dell’artista brasiliano Vik Muniz che ha impiegato, come sua abitudine, materiali inusuali, o di scarto, e la manipolazione delle dimensioni per convertire la prevedibilità in stupore. La barca, chiamata appunto “Lampedusa”, all’esterno era rivestita da materiale che riproduceva la prima pagina del quotidiano La Nuova Venezia del 4 ottobre 2013, il giorno seguente il tragico affondamento al largo della Sicilia, dove morirono 366 migranti. La fragilità e la precarietà dei mezzi che i migranti sono costretti a usare per attraversare il mare è tutt’uno con l’effimero della carta di un giornale che riporta notizie che verranno dimenticate dopo pochi giorni.

C’è invece chi ha invece usato il legno dei barconi per raccontare le migrazioni. Massimo Sansavini, ottenuta l’autorizzazione dal tribunale di Agrigento ad accedere al girone dantesco del deposito delle barche confiscate a Lampedusa, le ha utilizzate come materiale per le sue opere: «Lavorare quel legno è stato come toccare i sogni e la disperazione dei migranti, raccontare quello che hanno visto, temuto o desiderato durante la traversata. Cuori in balia delle onde, timoni alla deriva, case colorate all’orizzonte, pesci fantastici. Simboli della vita rimasta sotto coperta: una piccola scarpa, una confezione vuota di medicine, dei pantaloni viola, la borsetta in paglia di una bimba». Questi oggetti sono diventati una mostra itinerante, TourOperator, che verrà esposta (dal 14 al 17 novembre 2016) nella sede del Parlamento Europeo di Bruxelles, che sul dramma dei migranti non ha del tutto la coscienza a posto.

Uno degli artisti più sensibili, tra i primi, all’esperienza dei fuggiaschi è l’albanese Adrian Paci, arrivato lui stesso come migrante in Italia nel 1992. Nella serie di nove fotografie Home to go (2001), Paci assume in mutande, ironicamente e dolorosamente allo stesso tempo, le sembianze di una sorta di Titano o Icaro postmoderno: cerca con sforzo di sollevare un tetto di legno di una casa; prova ad appoggiarvisi o a indossarlo come fosse una sorta di zaino o delle ali. La sua opera più celebre si intitola Centro di permanenza temporanea (2007): la foto mostra un gruppo di persone, evidentemente degli immigrati, che sono saliti ordinatamente sulla scaletta di un aereo, ma nello spazio vasto della pista non si intravede nessun velivolo. Quanto dovranno stare lì ad aspettare? Qual è la loro meta? Da dove vengono? In che aeroporto precisamente si trovano? Come mai non hanno valigie? E perché aspettano con tanta calma in quella situazione surreale? L’opera è ambientata, in realtà, all’aeroporto di San José in California. Lo spunto era venuto a Paci dalle vicende reali dei gruppi di immigrati che venivano rimpatriati: «Il migrante è un uomo che non ha terra sotto i propri piedi (nella performance stanno tutti stipati sulla scaletta, pur avendo tanto spazio attorno), che vive in un mondo sospeso, in una situazione di incertezza permanente, paradossalmente una sorta di immobilismo. Tutto è fermo e incerto nello stesso tempo».

IL POST – articolo di Francesco Cataluccio da Il Post – novembre 2016